Bello da fare schifo

2012/02/17 § 23 commenti

Tornare1 in Italia è più facile di quanto si pensi. Si prende un aereo e si atterra, con un tollerabile ritardo di venti minuti e un applauso in sottofondo. L’impatto non è traumatico. Il timore di non ritrovare ciò che si era lasciato è, tutto sommato, inutile: non importa quanto si è stati via, l’Italia nel frattempo è certamente cambiata meno di noi. Sarà lei a riadattarsi a quel che abbiamo di diverso. E lo farà, come al solito: con un tollerabile ritardo di vent’anni e un applauso in sottofondo.

Rispetto a un po’ di tempo fa ho rinnovato idee e progetti. Sono di nuovo a Roma (eddaje!), e adesso passo le serate a guardare la tangenziale dalla finestra, a riflettere su cosa c’è di nuovo e a chiedermi quanto servirà ai miei compatrioti per arrivare a tutte le conclusioni inoppugnabilmente esatte alle quali sono giunto.

Di nuovo c’è che piovono scontrini, col rapporto scontrino per pagamento che adesso si attesta nei pressi di un vertiginoso 0,97, e qualche premuroso negoziante, addirittura, ad assicurarsi che l’irrimpiazzabile fogliettino sia effettivamente nelle tasche del cliente in uscita.

C’è che fumare ha smesso di essere cool e ora è un po’ da sfigati, per citare un viceministro nizzardo, o quel poveraccio di Stracquadanio.

C’è che la logorante evoluzione delle suonerie telefoniche sembra essere arrivata a un punto in cui le specie dominanti non sono più di quattro (e una di quelle quattro è la mia), col risultato che, in un treno affollato, circa un quarto dei passeggeri è costantemente convinto che qualcuno lo stia chiamando.

Le inoppugnabili conclusioni sono invece cariche di retorica, per una volta appropriata e giusta, e ne sono perfettamente consapevole.

Non sono mai stato patriottico. Più in generale: non capisco che senso abbia il magnificare o difendere a prescindere ciò che ci ritroviamo ad avere per caso, come la forma delle orecchie, o la patria. Quindi vi dovete fidare quando vi dico che siamo davvero fortunati a essere italiani.

Siamo davvero fortunati a essere italiani. Vi siete fidati? Non lo so, magari per voi non è una novità. Per me sì, non lo sapevo. Io me ne andai, ben più di due anni fa, che disprezzavo appassionatamente tutto ciò che c’è di disprezzabile al di sotto delle Alpi. Facevo bene, sia chiaro. Il disprezzo è un sentimento utile e le occasioni per tenerlo in allenamento innumerevoli. Però mi sono lentamente reso conto che avevo praticamente smesso di apprezzare. Il mio modo di vedere, di giudicare le cose era sbilanciato.

Ora penso che l’Italia vada salvata. Non solo dalla crisi, ma da se stessa (è un’alcolizzata), dai nostri difetti. Non perché ci conviene, ma perché lasciarla affondare è un torto fatto all’umanità. L’Italia è così provinciale da non comprendere quanto sia significativa, addirittura simbolica, per il resto del mondo. Chi glielo spiega a un olandese che l’Italia è perduta per sempre? Dice: cazzo gliene frega all’olandese? Molto gliene frega, molto. Per chi ne è fuori, sapere che l’Italia esiste, è conoscibile, visitabile, dà un po’ più senso a tutto. L’Italia deve esistere.

E l’Italia esiste, infatti. Non solo come penisola, ma anche come insieme di persone. Cari veneti e siciliani, avete tanto in comune, senza offesa. Cercate di incontrarvi in un supermercato di Amburgo, in un bar di Granada, in un ufficio postale di Helsinki, in un discopub di Belfast, e forse ve ne accorgerete. Siete diversi, magari non vi piacete: rassegnatevi, siete comunque italiani. Get over it.

L’Italia ha anche un serio problema d’immagine: parlarne male è un merito, un evergreen nelle discussioni in fila alle poste, un infallibile rompighiaccio da aperitivo. Forse è il caso di farla passare di moda questa storia. Forse è pure il caso di ammettere che poche cose sono italiane come il non sentirsi italiani.

Ma più che altro, l’Italia è un Paese bello da fare schifo. Che fa schifo proprio perché questa bellezza rende sopportabile, sormontabile, dimenticabile quasi tutto il resto. In Italia la vita è bella. Difficile, frustrante, scoraggiante, ma (quasi) sempre e comunque bella.

Per questo all’Italia bisogna voler bene, dell’Italia bisogna aver cura.

Non sapevo quanto fosse importante, né quanto sarebbe sbagliato continuare a snobbarla e maltrattarla fino a trasformarla in un ricordo.

Io per capirlo sono dovuto stare via per un bel po’. E se sono tornato è anche perché finalmente mi piace il mio Paese, ed è una splendida, inedita sensazione. Non mi piace perché è il mio, ma è il mio perché mi piace. Mi piace nonostante. Mi piace comunque. Mi piace anche se.

E se mi piace così com’è, mi vengono le vertigini all’idea di come potrebbe diventare se decidesse, decidessimo, che è arrivato il momento di diventare grandi, che finora s’è scherzato, che il meglio deve ancora venire.

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1 È periodo di ritorni, si diceva.

La storia di Talia

2011/12/13 § 7 commenti

Abbiamo tutti una piccola biografia fatta di pub, ristoranti, bar, caffè, trattorie. Molti di questi posti ce li siamo quasi dimenticati: non ci hanno detto o dato nulla, o li abbiamo incrociati con la testa da qualche altra parte. Ce ne sono alcuni che ricordiamo per evitarli, perché magari sono stati scortesi, ci hanno riempito poco la pancia o svuotato troppo le tasche. Su altri sappiamo di poter contare: formano una costellazione di luoghi che ci piacciono, nei quali torneremo e che siamo ben contenti di consigliare.

Invece altri ancora li teniamo solo per noi, per proteggerli, perché sono luoghi inspiegabilmente incontaminati, quasi perfetti, ma destinati a essere scoperti, piano piano, e spesso a cambiare volto e anima e prezzario nel giro di qualche anno; già l’altra sera, a ripensarci, erano insolitamente pieni e vagamente mainstream, non come quella prima volta in cui entrammo quasi per caso, e c’era poca gente e un’atmosfera, una luce, un profumo, una canzone che sembravano essere stati scelti per noi, o da noi. E allora li proteggiamo, senza parlarne a nessuno, o a quasi nessuno, perché vogliamo che restino così come sono, almeno fino alla prossima volta in cui vorremo essere là proprio per quell’anniversario, per quella serata, per quella confessione.

Ma c’è un luogo che è fuori categoria. Rientrerebbe nell’ultima, se non fosse per la sua essenza autonoma e incorruttibile, che non vuole risentire della popolarità, né delle bizze del mercato; un luogo in cui l’offerta se ne sbatte della domanda, e la domanda ci resta sotto e ritorna e cresce, perché un’offerta così non l’aveva mai trovata; un luogo che, se è vuoto, pare una succursale del tuo soggiorno e, se è pieno, diventa una festa a casa di amici dove tutti s’imbriacano di caffè e pizza al taglio. E se strabocca, se c’è più gente di quanta possa fisicamente entrare in quello spazio, allora l’essenza si propaga nella placida strada antistante e la conquista finché sarà necessario, e chi è fuori è comunque dentro, mentre i passanti hanno come l’impressione di prendere parte a un qualcosa di insolito e allettante, che li sta invitando a restare, fosse anche solo per un minuto.

Questo luogo si chiama Taliagastronomia culturale interattiva. Che, è evidente, non vuol dire assolutamente nulla: è una definizione che esiste perché per esistere, a Talia come a quasi tutte le creazioni umane, serve una definizione; ma che viene riempita di significato giorno per giorno, a seconda di quello che c’è in forno o in programma.

Talia è ad Amsterdam, Prinsenstraat 12, ha un anno e mezzo e vende le scuse più buone del mondo.

Il mio amico D. conobbe Nicola a una festa di quell’invenzione mirabolante che è CouchSurfing. Poi ci ritrovammo tutti e tre, più qualcun altro, in una freddissima sera d’inizio 2010 al Gollem (che rientra nella categoria di luoghi da consigliare). Nicola aveva ancora i capelli lunghi da rocker superato e un progetto in pentola: aprire Talia. Me ne parlava con apprensione, un po’ perché ci teneva tanto, un po’ perché la situazione era parecchio incerta.

La notte di qualche mese prima, Nicola si era ritrovato con Michele a contare il budget complessivo rimasto a loro disposizione dopo un lungo periodo speso a barcamenarsi per cercare di far qualcosa di più che sopravvivere: era di otto euro. Lì nacque l’idea. O meglio, lì nacque la necessità di farsi venire un’idea e di provare veramente a realizzarla. Così Michele e Nicola concepirono Talia che, a voler essere precisi, a voler andare dritti al nocciolo, è uno spazio a disposizione di chi vorrebbe migliorare il mondo.1 E che, solo al fine di pagarsi la possibilità di esserci, vende pizza al taglio, focacce e altri prodotti italiani di gran qualità, bontà, sostenibilità e, considerata la zona, irreperibilità.

I ragazzi avevano un prestito da trovare e un locale da affittare. Quando incontrai per la prima volta Nicola, i due erano riusciti a mettere le basi per ottenere entrambe le cose, assicurando alla banca* che avevano già il posto e ai locatori che avevano già i soldi. Per questo quel vecchio rocker di Nicola era in apprensione: era nel mezzo di un doppio bluff spudorato. Ma, come avrete già capito, alla fine è andata bene. Avevano otto euro e oggi hanno un locale in centro ad Amsterdam: è possibile, ve lo giuro. Io c’ero. Al tempo ci vivevo ad Amsterdam e ogni tanto passavo a trovarli mentre costruivano Talia, per monitorare i progressi, l’umore, la soundtrack delle operazioni, e si capiva che stava nascendo qualcosa di speciale.2

Fin dall’inaugurazione fu chiaro a tutti che Talia non era solo di Nicola e Michele, ma di chiunque ci mettesse piede. Da quasi subito, con quella scusa delle pizze, iniziarono a susseguirsi nei mesi concerti, jam session, corsi di lingua, di cucina, di chitarra, seminari, feste, giochi e chissà quali altre attività che adesso non ricordo. L’agenda era fittissima, ma i ragazzi sapevano anche che, come in molti altri luoghi, ad Amsterdam un negozio appena nato è come un uomo troppo vecchio: ha il problema di passare l’inverno. È quindi solo dalla primavera di quest’anno che Talia c’è con la certezza di restare, e adesso si sta ulteriormente evolvendo.

Michele è a destra con la bandana, Nicola è a sinistra e sta per scoperchiare il tiramisù gigante con cui si è festeggiato, in mezzo alla strada, il "Talia 1", il primo compleanno di Talia.

I due hanno innumerevoli progetti e sono sempre occupatissimi. Ho scritto a Nicola un paio di settimane fa per chiedergli alcune cose per questo post, ma lui per ora ha trovato solo il tempo di rispondermi che è “superincasinato” e che approfondirà nel giro di un paio di giorni: un obiettivo che si è rivelato totalmente al di fuori della sua portata.3 E quindi, per esempio, non so dirvi bene com’è andata ‘sta storia di Talia ai TEDxAmsterdam. [Saltate al minuto 4.32, se non vi va di sentirvi il discorso]

Poi ho pensato che magari non conosco i dettagli, ma in realtà lo so com’è andata. Cioè, come volete che sia andata? Si sono incontrate due cose belle. Già me la immagino quell’email “entusiasta” scritta dal loro netbook infarinato. E mi immagino anche Irene che entra, si guarda in giro, legge la frase, beve il caffè e non capisce, non si capacita del fatto che non ci sia nessun motivo perché debba costare più di un euro.

Non mi immagino invece che cos’altro succederà a Talia nei prossimi mesi o anni. Qualunque cosa, probabilmente. Ma in ogni caso, credo e spero che la sua essenza non cambierà, ed è anche per questo che ne scrivo tranquillamente. Quindi andateci pure, andateci a gruppi, a frotte, a squadroni: è un posto eccezionale che ha una bella storia da raccontare. Ed è una storia che un po’ ci riguarda, perché si parla spesso di quanto sia importante tenere alto il nome dell’Italia all’estero, come se ormai fosse un buon risultato già il riuscire a conservare un passato e una reputazione. Ma Talia sta facendo meglio: lo sta innalzando quel nostro nome, gli dà nuove sfumature, lo aggiorna e rinnova. Mi inorgoglisco un po’ anch’io a pensarci, e sarebbe una sensazione completamente positiva se non fosse per un retrogusto strano. Insomma, sono stati giustamente versati fiumi d’inchiostro sulle conseguenze negative per il Paese del brain drain, dell’espatrio dei più preparati, brillanti, competenti; ma il fatto è che storie come quella di Michele e Nicola, che sono andati fino in Olanda per fare un minuscolo capolavoro italiano, mi lasciano con l’impressione che non si stia prendendo sufficientemente in considerazione quanto l’Italia stia soffrendo, assieme alla fuga dei cervelli, anche quella degli entusiasmi, dei buoni propositi, del coraggio, della fantasia.

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1 Ancora non ho mai incontrato nessuno che non vorrebbe migliorare il mondo almeno un po’.
2 Ora che ci rifletto, ogni tanto mi davano anche da faticare. Quando ci andate, per esempio, guardate il bancone del caffé sulla destra dopo le scale e aiutatemi a maledire il giorno in cui son passato di lì e c’era da portarlo su.
3 Me l’ha detto ormai sei giorni fa! Se poi mi racconterà qualcosa di notevole, integro in un secondo momento.

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Edit: tra un catering e l’altro, mi ha detto Nicola che ci sono degli errori. Il primo è tipico delle storie che si tramandano di bocca in bocca finché tutto diventa distorto, enfatizzato, ingigantito: il budget inizale non era di otto euro, e riflettendoci non poteva essere così piccolo (scemo io a credere a una cosa così assurda). Gli euro di partenza erano ben nove.

*Il secondo errore è anch’esso tipico, ma di una tipicità più contemporanea: ho tirato in mezzo le banche, come si suol fare di questi tempi. Invece le banche non c’entrano niente, anzi: “siamo orgogliosi di essere arrivati fin qui senza mai aver avuto alcun prestito da banche o simili”, mi scrive Nicola. “L’unico ente a cui lo chiedemmo fu un’associazione non profit di microcredito che, letto il nostro progetto, si entusiasmò (a tal punto da definirlo il progetto piu bello mai presentato loro) e ci assicurò un prestito di 5000 euro… che purtroppo non arrivò mai a causa del fallimento dell’associazione stessa qualche settimana prima di erogare la somma promessa. Quindi si puo ben dire che Talia è nata grazie a soli 9 euro e l’aiuto di amici e conoscenti che come te [n.d.a. groppo alla gola] hanno contribuito, chi portando su i mobili, chi portandoci della pasta calda mentre lavoravamo e pittavamo, chi prestandoci tutti i suoi risparmi (ricordo ad esempio un’amica che dall’Italia mi versò 1000€, che era tutto quello che aveva messo da parte in un anno di sacrifici e lavori per poter realizzare il suo progetto di diventare stilista di “moda critica”, oppure un altro amico argentino che fece lo stesso), chi ancora venendo a suonare per allietarci mentre stuccavamo i muri, and so on…”

Resta da chiarire che il leggendario doppio bluff c’è stato, ma con locatori e fornitori (di cibo e attrezzature). Che non ho ancora deciso se la storia dell’istituto di microcredito sia più triste o più losca. E che l’amica aspirante stilista di “moda critica” è un personaggio che si meriterebbe una statua fatta di pasta di pane, a mio modesto parere.

Waarschuwingsstelsel

2011/11/07 § 4 commenti

Paesi Bassi, primo lunedì del mese, ore 12: per poco meno di un minuto e mezzo s’ode ovunque una sirena. È il sistema d’allarme nazionale (quella parola spaventosa del titolo significa sistema d’allarme). Viene testato mensilmente per individuare eventuali malfunzionamenti, tenere la popolazione un po’ all’erta – ché il mondo mica è così sonnacchioso come sembra – e, indirettamente, mandarle anche un messaggio: state tranquilli che, se succede qualcosa di brutto, c’è qualcuno che ci pensa e ve lo fa sapere.
Quindi in caso di armageddon, apocalisse, invasione aliena o tedesca, gli olandesi possono avvertire tutti subito. Ma, com’è ovvio, il sistema può entrare in azione anche solo localmente (è successo a gennaio vicino a Dordrecht per un incendio in un impianto chimico).

Io fortunatamente non ho ancora avuto il dispiacere di sentirlo fuori orario, però so che cosa devo fare nel caso: entrare, o restare, in un edificio (a casa, se possibile), chiudere porte e finestre, accendere radio o TV e aspettare istruzioni. Facile. Anche rassicurante, se mai ci possa essere qualcosa di rassicurante durante una catastrofe.

Non sorprende che ci sia questo sistema: il paese è piccolo, obbediente, amante dell’organizzazione, esposto alle bizze del mare sovrastante e ancora traumatizzato dall’inondazione del ’53, che invase il 9% del territorio e fece più di 2500 vittime. Ma gli olandesi non sono gli unici ad avere qualcosa del genere: restando in Europa, ce l’hanno francesi, britannici, tedeschi, svizzeri (due tonalità a seconda del tipo di emergenza), rumeni e norvegesi.

Quello che mi sono chiesto oggi a mezzogiorno e tre secondi è stato: ma in Italia perché non ce l’abbiamo? Non credo si debba essere esperti in catastrofi naturali per capire che, in questi giorni, avrebbe potuto essere utile. O che potrebbe esserlo in futuro. Magari mi sbaglio, non so.

Però so che è triste sentirlo “a vuoto” qui, sapendo che non è suonato lì.

Il puzzo degli stranieri

2011/09/21 § 4 commenti

Di passaggio dalle parti del paese natìo, ho una bella idea per il pranzo e faccio un salto all’alimentari a comprare giusto un paio di cose. Pago e poi sguaino una busta di plastica che mi sono portato da casa, proprio quando la signora stava per darmene una nuova.

“Oh, bravo!”, mi fa.
La sua sorpresa non mi sorprende, ma la sua aperta approvazione sì. Anche gli altri clienti hanno sentito: la proprietaria apprezza chi si porta una busta da casa. Poi subito aggiunge: “T’hai preso il puzzo degli stranieri, eh?”
L’espressione suona un po’ strana, ma non c’è sarcasmo. C’è una sorta di ammirazione distante. Ho fatto qualcosa di buono ma alieno, e gli alieni di solito sono cattivi. O, quantomeno, puzzano.

Ripenso ai mesi che mi sono serviti, arrivato in Olanda, per imparare a prendere con me una busta per andare a far la spesa. Mesi per far diventare automatica l’equazione spesa = busta + soldi + chiavi, che adesso mi viene in mente senza sforzo quando mi accorgo che è finito il pane. Mi è sempre sembrata una cosa sensata, ma alla fine l’ho trasformata in abitudine più per conformismo che non per salvare ambiente o portafogli.

Rispondo: “Eh, dài, ma pian piano ci arriviamo anche noi.”
Lei lo prende come un auspicio, ma scuote la testa. Ha l’impressione che non cambi mai niente, probabilmente. E che quelle siano pratiche da forestieri e poco profumate. Invece la mia è proprio un’affermazione: ci arriviamo.

Era l’estate del 2005 e io ero appena tornato da sei mesi di Erasmus in Finlandia. Avevo rinverdito il repertorio di piccole mosse per salvare il mondo: mi ricordo che guidavo di meno e più piano, e prendevo più spesso la bici. Andai all’alimentari per giusto un paio di cose, tirai fuori la mia busta, fui scherzato: “Che pensavi che qui non ci s’avesse una busta?”
Ah, ah.
Anche gli altri clienti avevano sentito.

Oggi invece la proprietaria ha cambiato idea, anche se forse non se n’è accorta, e magari si sorprende pure, ma non scherza più; inoltre io ho imparato a portarmi la busta da casa. Credo sia soprattutto così che cambiano le cose: pian piano, mentre siamo impegnati a occuparci di tutt’altro. Di un buon pranzo, per esempio.

Cinque anni fa

2011/07/04 § 31 commenti

Era il 4 Luglio 2006. La Germania, lì a Dortmund, non aveva mai perso. L’Italia si presentava in buona forma, ma un avversario serio non lo aveva ancora incontrato. L’ultima volta era stata proprio contro i tedeschi in un’amichevole a Firenze: vittoria azzurra per 4 a 1, ma si sa che i tedeschi a Firenze fanno più che altro i turisti.

A Dortmund no. Nell’epicentro del Westfalenstadion, con la Ruhr dispiegata tutt’attorno, i tedeschi ritornano tedeschi, germanici, metallurgici, e gli italiani diventano immigrati che sanno d’aglio e gelatina. Di certo non turisti: non ci sono mai stati, a Dortmund, i turisti.

Nonostante l’alta posta in palio, le fantasiose provocazioni e le ridicole polemiche della vigila, la partita è insospettabilmente bella e l’Italia c’è eccome, soprattutto all’inizio. Poi si acquatta dietro, progressivamente, più per indole che per deliberata scelta tattica, e la Germania guadagna terreno e coraggio. Al 90° il pareggio rispecchia i valori espressi in campo, ma dopo qualche minuto di supplementari abbiamo già colpito due legni (chiamando in causa duemila santi) ed è evidente che “ce la meritiamo noi”. Allora Lippi si aggiusta gli occhiali sudati e, assecondando il destino, dispone quattro pistoleri ghignanti in faccia alla difesa crucca.

Gattuso si esibisce in un sombrero. Un minuto più tardi il pallone rotola sulla scrivania della sua antitesi, Andrea Pirlo. Diciassette uomini in fibrillazione pullulano l’area di rigore tedesca di fronte a lui, un miliardo di occhi lo guardano e qualche decina di milioni lo implorano, ma lui traccheggia, come se fosse sovrappensiero, come se la palla ce l’avesse qualcun altro. Poi d’incanto illumina. Anzi, smarmella. Improvvisamente quella palla è altrove – in un luogo che nessuno aveva visto – senza che Pirlo la degni di uno sguardo, un’attenzione, un saluto: si conoscono troppo bene i due, e da troppo tempo.

Un attimo prima di calciare, Fabio Grosso è l’archetipo dell’eroe per caso. È l’imberbe teenager catapultato nel mezzo della guerra dei mondi. È l’impiegato a cui vengono affidate le sorti della galassia. È talmente lontano dalla sua dimensione abituale che non è sotto alcun tipo di pressione. È ben oltre la pressione, forse addirittura sopra. Potrebbe tirarla in curva, lisciarla o svenire lì sul luogo, tanto nessuno sano di mente si aspetta che a risolvere due ore di zero a zero sia un terzino del Palermo. Per questo nasce un tiro perfetto.

L’esultanza è certamente tra le cose più preziose che il calcio abbia da offrire ai suoi amanti. La chiave sta nel gol, che è evento raro e improvviso, sempre unico per dinamica, significato, tempistica e bellezza. Il gol può liberare gioia, energia, commozione, persino follia, e tutte queste cose vengono espresse, e condivise con il pubblico, ogni volta in modo diverso.

Quella di Fabio Grosso è un’esultanza meravigliosa. Scappa, ride o forse piange, poi inizia a scuotere la testa e l’indice, perché in realtà ci stiamo sbagliando tutti, non è vero che ha segnato lui, non può essere. Vittima di inedite, ingestibili emozioni, Grosso si ritrova contemporaneamente a celebrare e a negare il suo gol. Il suo è puro spirito di sopravvivenza: se accettasse pienamente la sua nuova realtà, non potrebbe più continuare. Il suo mondo è cambiato radicalmente, tutto è differente. Come chiunque in quella situazione, Fabio avrebbe bisogno di tempo. Ma tempo non ce n’è, restano 120 onirici secondi.

La Germania vorrebbe anche reagire, ma Kannavaro è invincibile e gioca come giocherebbe Ethan Hunt se giocasse semifinali di Coppa del Mondo. L’uomo è in missione e l’attacco tedesco si autodistruggerà tra pochi secondi.

Ecco un bieco cross da destra, un crucco vi si fionda, Kannavaro lo precede in tuffo volante inesorabile e sgombera l’area. Poi Ballack spara in tribuna e le immagini tornano su Grosso, il quale è ancora alle prese con la sua nuova esistenza e parla da solo. “Non è vero”, dice il labiale.

Ecco un turpe cross da sinistra, un crucco vi si getta, “lo mette fuori Kannavaro”. Che successivamente fiuta tutta l’insicurezza del giovane Lucas Podolski e lo carica con lucida furia, mentre scocca il 120°. Lo atterrisce, lo conduce all’errore, pone fine alla sua adolescenza. In un tripudio di testosterone gli asporta la palla col petto, finendo poi per tamponare Totti e delegargli saggiamente il contropiede: in quelle lande non c’era tanta autorevolezza dai tempi di Bismarck.

L’Italia adesso è un crescendo wagneriano, dove ogni singola nota, ogni singola giocata è perfetta e più bella della precedente.

Totti inclina la metà campo della Germania e da quel momento in avanti la difesa gioca in salita, Gilardino in discesa. A 24 anni di età, lanciato a bomba contro l’ingiustizia1, il Gila ha la sua epifania. Vede ciò che la sorte gli riserverà per i giorni a venire e apprende così di essere tra coloro i quali, per l’eccessiva frenesia di compiersi, rimarranno campioni incompiuti. Ma accoglie tutto con serenità, il buon Gila, poiché c’è in gioco un bene superiore. I buoni hanno appena sventato il piano malefico e messo in salvo gli ostaggi, ora si tratta di annientare il cattivo e non c’è tempo da perdere.

Ha tutto chiaro, il Gila. Sa bene che il suo ruolo in questa epopea è quello della spalla, ed è ben noto che la spalla non può mai sopraffare il cattivo, così come il Dottor Watson non riesce mai a risolvere il caso. Ma di fronte all’antagonista, una spalla ha sempre due opzioni: quando non conosce o non accetta il suo ruolo, allora ci prova, fallisce e spesso perisce; se invece riconosce la sua essenza, come il Gila ha appena fatto, riesce ad assistere l’eroe e affiancarlo nel trionfo. Un trionfo per il quale sembrerebbe tutto pronto. Però c’è un grosso problema: dell’eroe non vi è traccia alcuna.

Gilardino è dunque solo. Suo malgrado, è costretto a puntare l’uomo, a cercare lo spazio per il tiro e a trovarlo. Ma mentre sta per scoccare, sente una voce alle sue spalle che lo chiama con urgenza (o, se non altro, questo è ciò che dichiarerà poi a chi ha sentito il bisogno di una spiegazione razionale). “Ecco l’eroe”, pensa il Gila sollevato, e lo serve col secondo assist no-look di quei due minuti tecnicamente strabilianti. Ma gli eroi son sempre giovani e belli2, e il proprietario di quella voce non è né l’uno né l’altro.

Un attimo prima di calciare, Alessandro Del Piero è l’archetipo dell’antieroe. È un cavaliere errante tormentato da un passato di errori e lacrime. È un principe diseredato. Qualcuno giurava che fosse morto, altri lo davano per disperso in terre remote e inospitali, fuggito via a leccarsi le ferite infertegli da nemici e amici. Nessuno immaginava che sarebbe rispuntato proprio lì, eppure nessuno è davvero sorpreso. L’apparizione di Del Piero è tanto implausibile quanto inevitabile. L’incoscienza con cui conclude è sconcertante. La bellezza del suo destro quasi inopportuna. La palla in rete una catarsi.

Italia-Germania finisce nel momento esatto in cui entra nell’epica sportiva. Ma sul prato, sugli spalti e lungo tutto lo stivale è gia iniziato il pandemonio, e durerà un’estate.

Oggi, a distanza di cinque anni, la grandezza di questa partita è stata celebrata, ma non ancora pienamente compresa.

Se avvicinate qualche tifoso prima di un match contro un’arcirivale e gli chiedete che cosa sogna, le risposte che otterrete saranno generalmente due: c’è chi vorrà una sofferta battaglia risolta in extremis, che porti a un’esplosione di gioia e getti il nemico nello sconforto; e ci sarà invece chi spera in una dimostrazione di forza e superiorità, in una vittoria netta e insindacabile.

Incredibilmente, Germania-Italia è stata entrambe le cose.

(Gentili radioascoltatori, Riccardo Cucchi über alles)

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1 Francesco Guccini, La locomotiva, 1972
2 Ibidem.

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Questo post ha ricevuto una nomination ai Macchianera Blog Awards 2011 nella categoria “Miglior post o articolo dell’anno”. Mica pizza e fichi.

Italiani vs Italians (con “la mamma alcolizzata”)

2011/06/27 § 2 commenti

Al di là della frontiera, dispersi e inesauribili, gli italians1 continuano a raccontare del loro paese a genti di ogni nazionalità. In effetti di Italia si parla spesso, a volte intrattenendo anche cinque o sei individui alla volta. All’inizio mi chiedevo se tutta quell’attenzione e quelle domande fossero dovute solamente a un eccesso di gentilezza da parte degli interlocutori. Insomma, credevo di essere lì a fare la figura dell’ossessionato, e più di una volta ho chiesto: “Ma vi interessa davvero?” e le risposte son sempre state onestamente affermative. La condizione dell’Italia incuriosisce, forse addirittura affascina lo straniero, che poi molto spesso non si capacita, apprende tutto ma non comprende quasi nulla.

Dopo, quando si è tra italians, ci si interroga sulle ragioni di questa piccola ulteriore anomalia del paese. Perché ne discutiamo così tanto? Perché ci chiedono aggiornamenti e spiegazioni in continuazione? E perché, non dico i tedeschi o i francesi, ma nemmeno gli spagnoli o i portoghesi o i belgi, che pure di problemi ne avrebbero, si ritrovano in questa situazione?

“È come se avessimo la mamma alcolizzata”, mi ha detto un tale di recente, illuminandomi. Perché il paragone, ad aggiustarlo un po’, calza benissmo: questa mamma è una donna speciale, che nei suoi anni migliori sapeva incantare; una di quelle persone dal fascino complesso e irregolare, consapevoli di avere un dono e da esso intimamente spaventate; una di quelle anime così vicine alla grazia che finiscono per perdersi e per voler dimenticare di essersi perse. Oggi questa mamma ha lunghe avvilenti fasi di buio e autodistruzione, terribili per lei e per tutti quanti attorno, intervallate di quando in quando da momenti di lucidità e bellezza che regalano più rimpianti che sorrisi. Una parte di lei vuole risollevarsi, un’altra, dominante, restare nella polvere.

Questa è l’Italia oggi, ed è soprattutto per questo che molti, italiani e non, si premurano di sapere come sta e se mai riuscirà a rifiorire. Poi, ecco, questa mamma ha due figli. Uno se ne è andato, l’altro è rimasto. Il primo si sente quasi leggero, senza più il peso della frustrante convivenza quotidiana con quella situazione, ma continua a preoccuparsi, con la rabbia per le mancanze e i traumi della sua adolescenza che si fonde con la nostalgia per i perduti attimi di splendore materno. Il secondo fatica ad andare avanti, rassegnato e tentato dal bere anche lui, disprezza l’incapacità di reagire della madre e prende parte ai bei momenti senza goderne quasi più. E pian piano anche il rapporto tra i due fratelli sta iniziando a incrinarsi…

Ecco, io spero di sbagliarmi, ma sto sentendo una strana acredine che cresce tra italiani e italians,2 i quali hanno iniziato a rinfacciarsi, ad esempio, di essersene andati senza voltarsi o di essersi arresi e adeguati allo squallore, e così via. Se anche fosse l’alba di una cosa seria, non ci sarebbe da sorprendersi: in fondo si parla di un popolo che si è sempre diviso su tutto e per il quale campanilismo e polarizzazione sono i passatempi nazionali; l’immortale Stanis La Rochelle direbbe che è tutto “molto italiano“. Però bisogna che lo metta agli atti: in questo caso – credo – si toccherebbero nuove vette di stupidità e autolesionismo. Un eventuale conflitto sociale tra italiani e italians sarebbe di una idiozia tale da far rimpiangere guelfi e ghibellini, o guelfi bianchi e guelfi neri. Sarebbe una clamorosa, spettacolare cazzata, e alzi la mano chi ne sente il bisogno.

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1 “Italians” sarebbero gli italiani all’estero così come li chiama Beppe Severgnini nel suo blog.
2 È una sensazione, non saprei dire con esattezza com’è che ce l’ho. Ma da questi due articoli (e dai loro commenti) si percepisce qualcosa: I pericoli della retorica del “fuggismo” e Italiani, dei quali (quorum) 3 per cento all’estero.

Eddaje?

2011/06/26 § 3 commenti

Sì, eddaje!

Prima di tutto perché eddaje, o più spesso daje, è una parola eccezionale.
In quasi sette anni passati a Roma si è radicata nel mio vocabolario, la penso, dico e scrivo continuamente. Benché corta, sgranchisce la bocca. La doppia D appiccica la lingua al palato, poi la A la stacca subito, fa uscire l’aria e allarga le fauci, le quali vanno quasi a riserrarsi per lo JE finale, lasciando solo uno spiraglio che poi cresce o svanisce a seconda delle circostanze.

Appunto, le circostanze. Eddaje è una sanguigna parola di gioia e resistenza, che tende essenzialmente al bene. La si usa per incoraggiare qualcuno – o, perché no?, se stessi – ed esortare ad andare avanti, a stringere i denti (che infatti si sfiorano durante lo JE), anche a rialzarsi. Allo stesso tempo, la si può urlare, allungando a piacimento la A e la seconda E, durante una qualsivoglia esultanza, in cui assume il significato e la potenza di un vai così al cubo. Poi la si usa per mettere fretta a chi ti sta facendo fare tardi, o per esprimere disappunto, ma sempre invitando a fare meglio. In alcuni casi può addirittura sostituire un . Eddaje è una parola costruttiva.

Inoltre deriva da dare, e credo questo sintetizzi perbene le principali ragioni alla base di questo posto.

Da quando sono fisicamente fuori dall’Italia, ho lasciato che i miei pensieri ci ritornassero spesso. Ho riflettuto molto e da una nuova prospettiva, accumulando ed elaborando nuove informazioni e sensazioni.1 Alcune mie idee stavano invecchiando, ma quelle nuove non erano ancora chiare. Poi, un paio di mesi fa, mi sono imbattutto in alcuni pezzi del nuovo libro di Luca Sofri, Un grande Paese, ed è stato come leggere i miei pensieri, finalmente coerenti e lucidamente espressi; è stato come intravedere il traguardo a metà percorso.

Starete pensando che per quanto rimpiazziamo i contenuti, sempre di patria stiamo parlando, ed è il concetto stesso a essere anacronistico: siamo cittadini del mondo, e ogni inclinazione localistica ci porta indietro. È un pensiero facile e immediato, e l’ho avuto anch’io a lungo. Ma ho cambiato idea. Il «proprio paese» esiste. Gli vogliamo bene, anche se non sappiamo a cosa. Il «proprio paese» serve. Se non altro perché qualcuno deve pur vergognarsene quando va a rotoli. Non bastassero tutte le ragioni che ognuno può avere di affetto e legame col «proprio paese», l’idea del «proprio paese» serve a farlo funzionare, il proprio paese. Il fattore che più alimenta il declino dell’Italia – assieme alla mediocrità della sua classe dirigente, politica e non – è la disillusione sul suo futuro e sulla sua stessa esistenza in vita. È che molti di quelli che potrebbero e vorrebbero fare qualcosa per portare l’Italia da un’altra parte non riescono più a trovarla, quell’Italia da portare da un’altra parte. È che si sentono soli. È che il peggio di questo posto sta prevalendo sul meglio, e il posto diventa irriconoscibile. E come lo miglioriamo, un posto che non c’è più e che non è più il «nostro paese»?

Già, come lo miglioriamo? E posso io avere l’ardire di provarci da qua, senza essere tacciato di ingenuità o, addirittura, ammutinamento? La risposta alla seconda domanda è: certamente sì. La prima questione è più complessa, e io una risposta non ce l’ho, ma a tal proposito c’è un altro punto chiave che viene affrontato da Sofri e sul quale mi sono trovato pienamente daccordo: mettere a frutto le proprie capacità è un modo molto naturale di contribuire alla crescita del «proprio paese».

C’è chi fa ciò che vuole e c’è chi fa ciò che gli riesce meglio (sì, c’è anche chi non fa nessuna delle due cose o chi proprio non fa niente, ma non è questo il punto). Una società giusta offre a ognuno la possibilità di fare ciò che più desidera. Ma una società in crisi ha bisogno come il pane che chi la compone si dedichi a ciò che gli riesce meglio. È logico, quasi ovvio, lo capirebbe anche un economista: in fondo si tratta di ottimizzare le risorse. È certamente meglio avere un imbianchino eccellente che un pittore mediocre, e viceversa.

Per quanto mi riguarda, c’è una varia umanità composta da insegnanti, parenti, genitori, amici, colleghi e conoscenti che, sin da quando avevo i denti da latte, ha spesso apprezzato sinceramente ciò che scrivevo e mi ha costantemente consigliato di continuare a farlo. A farlo per vivere, insomma. A tal punto che adesso ci sono alcuni delusi e tuttora ho qualche parente che crede che io stia facendo il giornalista. A parte gli aspetti comici di questa vicenda, tutto ciò è sempre stato piacevole e lo è ancora, ma allo stesso tempo è stato un po’ ingombrante. Cioè, ma se io non volessi scrivere?

Perché il giornalista, o addirittura lo scrittore, io non li ho MAI voluti fare. Ci ho pensato spesso e, assieme ai numerosi dubbi sulle mie effettive possibilità di riuscirci, ho sempre avuto il sospetto, forse poco fondato, che passare una vita a scrivere sia incompatibile col viverla appieno, la vita.

Però ho continuato a rifletterci e, infine, ho capito o deciso che invece da ora in avanti troverò il tempo e scriverò. Non so quanto, non so bene di cosa, ma scriverò. Per mantenere un contatto con l’Italia (e l’italiano). Per dare qualcosa. Perché mi riesce. Perché oggi è facile. Perché è giusto. E per tutta una serie di altre ragioni che adesso non conosco, ma che scoprirò in futuro.

Ciò detto, non ci sarebbe nient’altro da aggiungere. Se non che in certe situazioni penso che tutta questa bella e nobile premessa sia soltanto una mera copertura che mi sono costruito, e che in realtà ho solo una pura e semplice voglia di raccontare e raccontarmi. E in fondo è vero anche questo, non riesco a darmi torto. Come d’altronde resta vera la bella e nobile premessa. Quindi? Quindi non se ne esce, e alla sorgente di ‘sto blog c’è un’insanabile contraddizione. Che se ne prenda atto, io l’ho già fatto. E siccome sono una persona coerente, d’ora in poi cercherò di contraddirmi il più possibile.

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1 Mi sembra di capire l’Italia molto meglio dall’estero, e nella mia testa questo fatto si ricollega a due cose. La prima è quel momento in cui, ne Il nome della rosa, Guglielmo spiega ad Adso che i labrinti si risolvono meglio una volta che ne siamo fuori. Non che mi senta di aver “risolto” niente, figuriamoci (e poi l’Italia non è certo un labirinto: è MOLTO più complicata), però è una bella metafora. La seconda è questa canzone.
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[Segue, in un certo senso]

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