Cinque anni fa

2011/07/04 § 31 commenti

Era il 4 Luglio 2006. La Germania, lì a Dortmund, non aveva mai perso. L’Italia si presentava in buona forma, ma un avversario serio non lo aveva ancora incontrato. L’ultima volta era stata proprio contro i tedeschi in un’amichevole a Firenze: vittoria azzurra per 4 a 1, ma si sa che i tedeschi a Firenze fanno più che altro i turisti.

A Dortmund no. Nell’epicentro del Westfalenstadion, con la Ruhr dispiegata tutt’attorno, i tedeschi ritornano tedeschi, germanici, metallurgici, e gli italiani diventano immigrati che sanno d’aglio e gelatina. Di certo non turisti: non ci sono mai stati, a Dortmund, i turisti.

Nonostante l’alta posta in palio, le fantasiose provocazioni e le ridicole polemiche della vigila, la partita è insospettabilmente bella e l’Italia c’è eccome, soprattutto all’inizio. Poi si acquatta dietro, progressivamente, più per indole che per deliberata scelta tattica, e la Germania guadagna terreno e coraggio. Al 90° il pareggio rispecchia i valori espressi in campo, ma dopo qualche minuto di supplementari abbiamo già colpito due legni (chiamando in causa duemila santi) ed è evidente che “ce la meritiamo noi”. Allora Lippi si aggiusta gli occhiali sudati e, assecondando il destino, dispone quattro pistoleri ghignanti in faccia alla difesa crucca.

Gattuso si esibisce in un sombrero. Un minuto più tardi il pallone rotola sulla scrivania della sua antitesi, Andrea Pirlo. Diciassette uomini in fibrillazione pullulano l’area di rigore tedesca di fronte a lui, un miliardo di occhi lo guardano e qualche decina di milioni lo implorano, ma lui traccheggia, come se fosse sovrappensiero, come se la palla ce l’avesse qualcun altro. Poi d’incanto illumina. Anzi, smarmella. Improvvisamente quella palla è altrove – in un luogo che nessuno aveva visto – senza che Pirlo la degni di uno sguardo, un’attenzione, un saluto: si conoscono troppo bene i due, e da troppo tempo.

Un attimo prima di calciare, Fabio Grosso è l’archetipo dell’eroe per caso. È l’imberbe teenager catapultato nel mezzo della guerra dei mondi. È l’impiegato a cui vengono affidate le sorti della galassia. È talmente lontano dalla sua dimensione abituale che non è sotto alcun tipo di pressione. È ben oltre la pressione, forse addirittura sopra. Potrebbe tirarla in curva, lisciarla o svenire lì sul luogo, tanto nessuno sano di mente si aspetta che a risolvere due ore di zero a zero sia un terzino del Palermo. Per questo nasce un tiro perfetto.

L’esultanza è certamente tra le cose più preziose che il calcio abbia da offrire ai suoi amanti. La chiave sta nel gol, che è evento raro e improvviso, sempre unico per dinamica, significato, tempistica e bellezza. Il gol può liberare gioia, energia, commozione, persino follia, e tutte queste cose vengono espresse, e condivise con il pubblico, ogni volta in modo diverso.

Quella di Fabio Grosso è un’esultanza meravigliosa. Scappa, ride o forse piange, poi inizia a scuotere la testa e l’indice, perché in realtà ci stiamo sbagliando tutti, non è vero che ha segnato lui, non può essere. Vittima di inedite, ingestibili emozioni, Grosso si ritrova contemporaneamente a celebrare e a negare il suo gol. Il suo è puro spirito di sopravvivenza: se accettasse pienamente la sua nuova realtà, non potrebbe più continuare. Il suo mondo è cambiato radicalmente, tutto è differente. Come chiunque in quella situazione, Fabio avrebbe bisogno di tempo. Ma tempo non ce n’è, restano 120 onirici secondi.

La Germania vorrebbe anche reagire, ma Kannavaro è invincibile e gioca come giocherebbe Ethan Hunt se giocasse semifinali di Coppa del Mondo. L’uomo è in missione e l’attacco tedesco si autodistruggerà tra pochi secondi.

Ecco un bieco cross da destra, un crucco vi si fionda, Kannavaro lo precede in tuffo volante inesorabile e sgombera l’area. Poi Ballack spara in tribuna e le immagini tornano su Grosso, il quale è ancora alle prese con la sua nuova esistenza e parla da solo. “Non è vero”, dice il labiale.

Ecco un turpe cross da sinistra, un crucco vi si getta, “lo mette fuori Kannavaro”. Che successivamente fiuta tutta l’insicurezza del giovane Lucas Podolski e lo carica con lucida furia, mentre scocca il 120°. Lo atterrisce, lo conduce all’errore, pone fine alla sua adolescenza. In un tripudio di testosterone gli asporta la palla col petto, finendo poi per tamponare Totti e delegargli saggiamente il contropiede: in quelle lande non c’era tanta autorevolezza dai tempi di Bismarck.

L’Italia adesso è un crescendo wagneriano, dove ogni singola nota, ogni singola giocata è perfetta e più bella della precedente.

Totti inclina la metà campo della Germania e da quel momento in avanti la difesa gioca in salita, Gilardino in discesa. A 24 anni di età, lanciato a bomba contro l’ingiustizia1, il Gila ha la sua epifania. Vede ciò che la sorte gli riserverà per i giorni a venire e apprende così di essere tra coloro i quali, per l’eccessiva frenesia di compiersi, rimarranno campioni incompiuti. Ma accoglie tutto con serenità, il buon Gila, poiché c’è in gioco un bene superiore. I buoni hanno appena sventato il piano malefico e messo in salvo gli ostaggi, ora si tratta di annientare il cattivo e non c’è tempo da perdere.

Ha tutto chiaro, il Gila. Sa bene che il suo ruolo in questa epopea è quello della spalla, ed è ben noto che la spalla non può mai sopraffare il cattivo, così come il Dottor Watson non riesce mai a risolvere il caso. Ma di fronte all’antagonista, una spalla ha sempre due opzioni: quando non conosce o non accetta il suo ruolo, allora ci prova, fallisce e spesso perisce; se invece riconosce la sua essenza, come il Gila ha appena fatto, riesce ad assistere l’eroe e affiancarlo nel trionfo. Un trionfo per il quale sembrerebbe tutto pronto. Però c’è un grosso problema: dell’eroe non vi è traccia alcuna.

Gilardino è dunque solo. Suo malgrado, è costretto a puntare l’uomo, a cercare lo spazio per il tiro e a trovarlo. Ma mentre sta per scoccare, sente una voce alle sue spalle che lo chiama con urgenza (o, se non altro, questo è ciò che dichiarerà poi a chi ha sentito il bisogno di una spiegazione razionale). “Ecco l’eroe”, pensa il Gila sollevato, e lo serve col secondo assist no-look di quei due minuti tecnicamente strabilianti. Ma gli eroi son sempre giovani e belli2, e il proprietario di quella voce non è né l’uno né l’altro.

Un attimo prima di calciare, Alessandro Del Piero è l’archetipo dell’antieroe. È un cavaliere errante tormentato da un passato di errori e lacrime. È un principe diseredato. Qualcuno giurava che fosse morto, altri lo davano per disperso in terre remote e inospitali, fuggito via a leccarsi le ferite infertegli da nemici e amici. Nessuno immaginava che sarebbe rispuntato proprio lì, eppure nessuno è davvero sorpreso. L’apparizione di Del Piero è tanto implausibile quanto inevitabile. L’incoscienza con cui conclude è sconcertante. La bellezza del suo destro quasi inopportuna. La palla in rete una catarsi.

Italia-Germania finisce nel momento esatto in cui entra nell’epica sportiva. Ma sul prato, sugli spalti e lungo tutto lo stivale è gia iniziato il pandemonio, e durerà un’estate.

Oggi, a distanza di cinque anni, la grandezza di questa partita è stata celebrata, ma non ancora pienamente compresa.

Se avvicinate qualche tifoso prima di un match contro un’arcirivale e gli chiedete che cosa sogna, le risposte che otterrete saranno generalmente due: c’è chi vorrà una sofferta battaglia risolta in extremis, che porti a un’esplosione di gioia e getti il nemico nello sconforto; e ci sarà invece chi spera in una dimostrazione di forza e superiorità, in una vittoria netta e insindacabile.

Incredibilmente, Germania-Italia è stata entrambe le cose.

(Gentili radioascoltatori, Riccardo Cucchi über alles)

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1 Francesco Guccini, La locomotiva, 1972
2 Ibidem.

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Questo post ha ricevuto una nomination ai Macchianera Blog Awards 2011 nella categoria “Miglior post o articolo dell’anno”. Mica pizza e fichi.

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